
Il calcio e la Gen Z, la sfida per catturare la loro attenzione è aperta
L’intenzione delle dodici squadre europee con il maggior bacino di tifoseria di avviare la Super League ha destato scalpore e diviso: avidi da una parte, puritani dall’altra. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Il calcio fino ad oggi è realmente stato il calcio dei poveri?
La decisione di dar vita a una nuova competizione, parallela e maggiormente remunerativa a quelle dell’UEFA, è arrivata a mobilitare politici che in nome della meritocrazia si sono schierati nettamente a sfavore di un tentativo di spettacolarizzare il calcio, renderlo più profittevole e portarlo nel 2021.
La questione ha dato parecchi spunti di riflessione e, indipendentemente da come la si pensi, è necessario fare qualche considerazione sulle prospettive future di questo sport. Certo, è una questione che meriterebbe un’analisi approfondita da molteplici punti di vista, ma proverò a darne una lettura indossando gli occhiali del marketer, mettendo da parte sterili perbenismi e i sentimenti più nobili e romantici che verso questo sport si possono provare.
Partiamo da un presupposto: le squadre sono delle imprese atipiche che per poter offrire il proprio prodotto finale sul mercato (lo spettacolo della partita di calcio) devono cooperare tra loro. Tuttavia, si tratta pur sempre di imprese ed in quanto tali sono tenute a valutare l’ambiente di riferimento in cui esse operano e di conseguenza ad adattarsi al meglio per garantire la propria sopravvivenza nel lungo periodo.
Il calcio europeo ha bisogno di una profonda ristrutturazione, lo scenario in cui questo prodotto si trova a competere è in netta evoluzione. Ci troviamo davanti ad un mondo fortemente digitalizzato, tutto si muove in maniera troppo veloce, la generazione Z, naturale destinataria delle iniziative future, è attratta dagli avveniristici e-sport, dallo spettacolo sempre più commoditizzato del web che offre contenuti creativi, numerosi e frammentati, e di conseguenza è sempre più disinteressata al calcio.
Peter Moore, il CEO del Liverpool ritiene che il competitor più pericoloso per il calcio sia Fortnite: “entrambi competiamo per attrarre la loro attenzione. I riti di passaggio di molte generazioni erano legati al giorno in cui tuo padre ti portava alla partita. Andavi al campo, tuo padre ti faceva conoscere la squadra. Non succede più. Non perché i giovani non siano interessati al calcio, ma perché l’offerta è più ampia. Ora possono fare molte altre cose nella vita: possono navigare, possono interagire sui social media. Entrambi competiamo affinché restino concentrati su qualcosa”.
Ma chi è la generazione Z? Si tratta dei primi individui a non aver conosciuto un mondo senza tecnologie e ambienti digitali, giovani nati tra la seconda metà degli anni Novanta e il 2010 che trovano nell’ interattività dei nuovi media nuove modalità di fruizione dei mezzi. Sono consumatori iperconnessi alla rete grazie allo sviluppo dei device mobili, affetti dalla “sindrome dell’attenzione parziale” causata dall’iper-esposizione agli innumerevoli messaggi, sempre più user-generated e sempre più di qualità. Secondo una ricerca pubblicata nel 2020, i giovani non sono più disposti a guardare un’intera partita, bensì solo le azioni salienti. Seguire un’intera partita di novanta minuti, con le sue fisiologiche pause, diventa troppo poco dinamico per i loro standard. La causa di questo fenomeno non si può non far risalire alla smisurata (e talvolta simultanea) quantità di contenuti a cui sono sottoposti.
La sfida per catturare la loro attenzione è aperta.
Il pubblico dei tifosi invecchia e c’è una fetta crescente sempre meno interessata al calcio: una ricerca di McKinsey e Nielsen mostra come il 40% delle persone europee di fascia d’età compresa dai 16 ai 24 anni non sia interessata al calcio e che il 13% di questi addirittura lo odi.
Già dalla stagione 2016/2017, sempre uno studio McKinsey/Nielsen, dava prova di come tra i millennials il tempo di visione di una partita fosse sceso a 1h e 12m, un calo del 6% dei minuti guardati e dell’8% delle partite viste. Oggi, i tifosi fino ai 24 anni rappresentano oltre il 30% dell’audience per il calcio, un bacino d’utenza importante, ma in calo rispetto al passato.
Oltretutto, il Sole 24 Ore offre uno spunto interessante: la NFL (Lega Nordamericana di Football americano), con 300 milioni di seguaci nel mondo, genera il doppio in termini di diritti televisivi rispetto alla Champions League che vanta almeno 3 miliardi di appassionati.
Lo scenario non è dei più rosei. È necessaria una risposta repentina dai club e dalle istituzioni che intendono fronteggiare questo cambiamento e vogliono far breccia nel cuore della Gen Z, per evitare il soccombere di tutto il sistema calcistico dei prossimi 10-20 anni. Ecco, in questo mondo in continua evoluzione, non paragonabile a quello di pochissimi anni fa e figuriamoci a quello degli anni d’oro del grande Real, credo che la squadra-impresa, mossa dal più antico istinto di sopravvivenza, debba poter esprime la propria libertà di impresa, interiorizzando le evoluzioni che nel mondo esterno intercorrono.
Allora, alla luce di tutto ciò, possiamo definire l’intenzione delle “big twelve” come un’avida manovra prettamente finanziaria? Il piano sicuramente sarà stato volto a risolvere problematiche economico finanziarie di società indebitate le cui difficoltà sono state acuite dalla crisi covid, manovra lecita per una società privata che intende restare in vita nel lungo periodo, ma attenzione alle esigenze del target: la macchina del calcio necessita una rettifica al motore. L’attuale sistema probabilmente non è fatto per le platee future, tuttavia è importante non perdere di vista il calcio come strumento in grado di propagare nel tessuto sociale valori educativi da cui il manager sportivo non può prescindere.
Sabatino Esposito